
A più di un anno dallo scoppio della pandemia da Covid-19 proviamo a tirare le somme sullo smart working.
Il lavoro da remoto e il senso di controllo delle aziende
Inizialmente la cosiddetta modalità di lavoro agile ha insospettito molti, soprattutto i piccoli imprenditori e le piccole e medie imprese. Il dubbio dei datori di lavoro è sempre stato ”ma il lavoratore a casa lavora veramente oppure passa parte del tempo a fare altro”? Abbandonato il senso del controllo, il lavoro da remoto è diventato per molte aziende simbolo di un futuro leggero, senza costi di affitto, utenze o acquisto di strumenti e macchinari. Neppure il costo del computer. Quanti lavoratori hanno lavorato in questi mesi utilizzando un proprio pc personale? Ma agli inizi lavorare da remoto ha mostrato anche tutti i suoi vantaggi per gli stessi lavoratori. Risparmio dI tempo, niente ore nel traffico, niente costi di benzina o abbonamento ai mezzi pubblici, solo per citare alcuni dei lati positivi del lavoro a distanza. In determinati momenti la sola pubblica amministrazione ha impiegato circa l’87% del personale in smart-working.
Smart working, successo o fallimento?
Ma è proprio così che lo smart working italiano, che abbiamo chiamato home-working, nei mesi si è trasformato in una modalità di lavoro faticosa e di cui molti vorrebbero vedere la fine. Un lavoro in cui il lavoratore si sente in dovere di essere sempre connesso. Un’occupazione in cui domina l’ansia di dimostrare che si è presenti, che effettivamente si lavora e ci si adopera per il bene aziendale. Lo smart working nel nostro paese oggi è più un impiego senza orario, senza pausa pranzo o momento per il caffè, che un lavoro intelligente. Alla mancanza di socialità e di relazione con i colleghi, si sono aggiunti lo stress di essere sempre davanti ad uno schermo, l’assenza di un orario di lavoro e il sentirsi invasi nella privacy della propria casa in qualsiasi momento della giornata. Se molti sono felici del lavoro da remoto, altrettanti vedono una sovrapposizione continua tra vita personale e professionale che li mette in difficoltà. Tanti lavoratori si chiedono se questa sia davvero la modalità lavorativa del futuro.
Lo smart working non è il telelavoro
Lo smart working della pandemia non è il telelavoro disciplinato dalla legge 81 del maggio 2017. Nel telelavoro infatti, sussistono specifici vincoli di orario lavorativo e di spazio, così come sussiste il diritto alla disconnessione. Il telelavoro nasce da uno specifico accordo contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore. Al contrario, lo smart working di questi tempi nasce da una causa di forza maggiore che si chiama Covid-19. Il cosiddetto lavoro da remoto allora, non è il telelavoro. Ma ha ugualmente bisogno di essere disciplinato e regolamentato in qualche modo, per il benessere dei lavoratori, e quindi delle stesse aziende. La pandemia sta per volgere al termine grazie alla campagna di vaccinazione in tutto il mondo. Milioni di lavoratori ora si chiedono se lo smart working sarà il loro futuro o se, al contrario, potranno tornare in ufficio alla vita di prima. I dati sembrano indicare che i più sono favorevoli a lavorare almeno un giorno o due a settimana da remoto. In contrapposizione a questo, l’intera settimana a casa sembra creare invece non pochi problemi. L’ansia di restare imprigionati a casa a vita, in luoghi che non sono stati concepiti come spazi di lavoro, e la mancanza di relazioni vere con i colleghi, spinge tanti a desiderare di tornare in ufficio. Infine, ricordiamoci che il lavoro da remoto non funziona per tutti. Gli impieghi nei quali servono relazione, socialità ed intelligenza emotiva (come l’insegnamento ad esempio) sono stati fortemente penalizzati dallo smart working. E non è stata solo una mancanza di tecnologia e infrastruttura. Serve allora ricercare un nuovo equilibrio. Occorre pensare ad una modalità di lavoro blended, che unisca la praticità e il risparmio di lavorare da remoto, con il valore della relazione e del team che si crea invece sui luoghi aziendali.
Foto di Tran Mau Tri Tam su Unsplash