
Abbiamo recentemente parlato di smart working, del nuovo fenomeno chiamato south working e delle diverse potenzialità di questa modalità di lavoro. È interessante, a distanza di qualche mese dall’inizio della pandemia, riflettere su un aspetto di carattere geo-politico, oltre che economico: lo smart working può salvare i piccoli borghi dallo spopolamento.
Il grande numero dei piccoli comuni
I centri italiani a rischio sono tantissimi. Ci sono più di trecento comuni che dal 1971 ad oggi hanno perso tra il 50% e l’80% della loro popolazione. Per comprendere quante sono queste realtà, basti pensare che il 72% dei comuni ha meno di cinquemila abitanti. Durante il lockdown sono stati molti i lavoratori che, a causa della chiusura fisica o totale degli uffici, delle regole di distanziamento sociale e dell’esigenza di stare vicino ai famigliari, si sono spostati dai centri urbani verso l’esterno. Il Covid-19 ha dunque permesso la riscoperta di questi luoghi, incidendo sulla territorialità del lavoro e favorendo un cambio di paradigma abitativo e produttivo. Lo smart working può essere la soluzione tanto ricercata allo spopolamento della maggior parte dei borghi italiani, lo strumento per portare ulteriore valore a queste zone stupende, ricche di storia e di tradizioni. Ma come fare? Per realizzare concretamente tale cambiamento è necessario uno spostamento di valore: dal centro alle periferie, ai piccoli borghi. Se parte della popolazione, del valore e della ricchezza che oggi si concentra nelle principali città, in modo sovradimensionato, si muovesse centrifugamente verso altri luoghi, potrebbe essere vantaggioso. È conveniente per le città, che possono alleggerirsi e riordinarsi. Per una riqualificazione delle periferie. Per la rinascita e il ripopolamento dei piccoli comuni, che conduce a stili di vita più sostenibili. Si tratta di un processo che abbatte i costi, promuovendo al contempo un’economia sostenibile e digitale.
Servono tempo, sacrifici e investimenti
Alcune persone, attive in città, asseriscono che bar e ristoranti hanno perso una parte rilevante del loro fatturato. Certo, ma tale ricchezza non ha cessato di esistere, si è spostata in zone dove mancava, era indispensabile. Ovviamente, ci vuole tempo. Il cambiamento richiede sacrifici, ridefinizioni e, soprattutto, parecchi investimenti. Bisogna innanzitutto agire a livello normativo, puntando sul lavoro, riscrivendo i contratti e rendendoli più smart. Servono sgravi fiscali per chi decide di vivere o fare impresa nei comuni ad evidente rischio di spopolamento. E perché ciò si realizzi è necessaria una trasformazione digitale. Ad esempio, strumentazioni hardware (notebook, accessori) e software (programmi, dispositivi di sicurezza, ecc.), reti wi-fi e fibra e magari spazi di co-working adatti al lavoro agile. Perché il futuro di questa risoluzione non riguarda soltanto gli smart-worker ma potrebbe spingere piccole e grandi aziende, italiane e non solo, a trasferirsi o delocalizzare in territori oggi in pericolo. Fuori dalle città, poi, le imprese possono trovare risorse nuove e più sostenibili, migliorando così la propria responsabilità sociale, oltre che il proprio business. Inoltre, Stato, Regioni e Amministrazioni locali devono impegnarsi nel rafforzare le infrastrutture, potenziando i servizi fondamentali, innanzitutto l’istruzione, la salute e la mobilità. In molti piccoli comuni le scuole chiudono, mancano presidi medici locali e medici di base e i trasporti pubblici sono precari, se non totalmente assenti. Bisogna partire da qui. Da una politica nazionale per il sistema locale, dal superamento del gap digitale. In assenza di un piano nazionale integrato, sono tanti i comuni che sviluppano iniziative finalizzate ad attrarre nuovi residenti. Ad esempio, in alcune località vengono cedute gratuitamente e a prezzi simbolici alcune case disabitate, si inventano nuovi business per creare posti di lavoro e si danno incentivi a chi sceglie di trasferirsi lì tutto l’anno.
Smart working per smart villages
Bisogna utilizzare tutte le risorse dei piccoli comuni affinché questi diventino luoghi di studio e di ricerca, d’arte e cultura: territori vissuti. Luoghi che abbraccino contemporaneamente passato e futuro. Puntare su innovazione e partecipazione locale per realizzare strategie e approcci smart. Lo smart working può concretamente contribuire alla creazione degli smart villages, all’interno della Rete europea per lo sviluppo rurale (RESR). La forza motrice di questi villaggi sono le comunità stesse, le persone, supportate dalla digitalizzazione. E la parola d’ordine dev’essere cooperazione. Gli abitanti e le amministrazioni locali devono comprendere che il livello di azione non può assolutamente limitarsi all’interno dei propri ristretti confini, ma deve coinvolgere realtà limitrofe e simili, dando vita a diverse forme di collaborazione. Gli smart villages adottano una visione innovativa che trasforma i limiti in opportunità, accogliendo soluzioni digitali e reciproca solidarietà. In Italia la strada da fare è ancora molta. I Comuni dovrebbero guardare ad alcuni progetti di villages europei che hanno scelto un approccio smart, basato su iniziative nate dal basso. Questi comuni sono riusciti ad invertire la tendenza allo spopolamento e a risolvere la carenza di servizi. Il lavoro da remoto ha fatto emergere un cambiamento necessario e concretamente realizzabile: è ora di rivalutare i piccoli borghi perché l’Italia, tutta, lo merita.
Foto di Antonella Salvatore
Articolo giusto, ma perchè questo accada davvero è necessario che il lavoro a distanza non sia una situazione temporanea dovuita alla pandemia, ma il nuovo normale, io e alcuni amici abbiamo lanciato una petizione affinchè il governo stimoli le aziende in questo senso, se puoi aiutaci a diffondere:
https://www.change.org/petizione_lavoro_a_distanza