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Basta Londra, vado a studiare a Palermo

di Giosuè Prezioso

Nonostante le priorità sanitarie globali, alcuni orologi non hanno smesso di ticchettare, incluso quello della dibattutissima Brexit. Lo scorso martedì 23 giugno, infatti, Michelle Donelan, membro del Parlamento Britannico, ha annunciato che dal prossimo anno accademico 2020-2021 le università del Regno Unito convertiranno in ‘international’ i preziari per gli Europei – una volta bollati ‘home/EU.’

Finisce la collaborazione EU/UK in ambito education

In passato, infatti, i cittadini di entrambi i blocchi (EU-UK) beneficiavano di un rapporto di reciprocità, secondo cui le tasse universitarie non si alteravano in base alla provenienza dello studente: se eri cittadino italiano, greco, o ungherese studiavi in Gran Bretagna allo stesso prezzo degli inglesi, e per un tetto massimo di £ 9,250 (€ 10,210) di tasse. Inoltre, per i più bisognosi, il sistema prevedeva accesso a borse di studio, diversificati diritti dello studente e lavoro a latere, se richiesto. Stesso sistema si applicava agli inglesi che studiavano nel continente. Questo virtuoso matrimonio di scambio, però, è arrivato al capolinea: dal prossimo anno accademico, infatti, il tetto massimo di circa € 10,000 di cui si è beneficiato per anni, potrebbe arrivare, in alcuni casi, ad oltre il quadruplo, £ 38,000 (€ 41,945), aderendo allo stesso trattamento di tutti gli studenti internazionali (non-EU) – Cinesi, in primis (120,385 studenti nel solo 2018-19).

I prezzi internazionali delle università britanniche

Un conto salato per gli europei e soprattutto per gli italiani, che fino ad oggi, per numero di iscritti, si costituivano come primo paese nell’Unione (14,000 nel solo anno accademico 2018-2019). Molti filo-Europeisti hanno sventolato il polso al Regno e hanno sentenziato parole come “calo,” “disastro,” “pentimento.” Eppure potrebbero sbagliarsi. Nell’anno accademico 2018-19, il numero di studenti Europei nel Regno Unito era pari a 143,025 unità. Una buona fonte di reddito per le diverse industrie del paese, senza dubbio, ma cosa diventa, lo stesso, se comparato al numero di studenti non-EU che è già esattamente più del doppio (342,620) e che è disposto a pagare il tetto di £ 38,000, insieme a visti, permessi di soggiorno e di lavoro… Il Regno Unito va definendosi dunque come un paese dove studiare non sarà più un diritto per molti, ma un lusso, un investimento voluminoso e con pochi sconti e opportunità. E a controbattere alle parole disfattiste dei filo Europeisti è il rappresentante del think tank, Higher Education Policy Institute, Nick Hillman, il quale, numeri alla mano, stabilisce fiero che “la storia ci suggerisce che l’istruzione offerta nelle nostre università è qualcosa per cui la gente è disposta a pagare,” con alcun accenno a pentimenti, revisioni, o dietrofront.

Dove studieranno gli studenti italiani?

Dove si orienteranno, dunque, le 14,000 matricole italiane dal prossimo anno accademico? Secondo una recente indagine, l’84% di studenti europei si dice “definitivamente non” predisposto a studiare nel paese se le tasse dovessero raddoppiare; e le previsioni di ridistribuzione, per adesso, prevedono paesi come l’Olanda e la Germania in testa alle classifiche di gradimento. E l’Italia? Le università italiane? L’industria dell’education nel nostro paese, dov’è? È pronta ad assorbire cittadini, risorse, menti e numeri? Siamo nel momento dell’opportunità, reso ancora più fertile – paradossalmente – dalla corrente pandemia COVID-19. È proprio in questa pandemia, infatti, che una giovane ricercatrice italiana, Elena Militello, ha dato vita al concetto del ‘South Working,’ un principio secondo cui mantieni la posizione nella banca di Milano, ma gestisci le operazioni da remoto, in un’altra località del paese in cui magari ottimizzi costi di affitto, vita sociale, salute e atmosfere. L’onda scatenata dal South Working ha messo in moto professionisti, associazioni, reti network e creatori app per sperimentare e collaudare uno modus vivendi che in realtà interessa già diversi italiani. Dunque perché non estendere l’esperimento all’istruzione? Studenti di Catanzaro che assistono a lezioni di medicina a Padova; matricole di Beni Culturali di Milano che studiano Pompei dallo schermo, con un esperto locale; studenti dalla vicina Albania che, approfittando del titolo europeo e dei bassi costi dell’università italiana, mantengono magari un lavoro part-time vicino alla famiglia.

L’istruzione italiana deve essere più sensibile al digitale

Ancora una volta questo è possibile in un paese, il Regno Unito, dove nel 1969 nasceva la prima università digitale al mondo, la Open University, che è diventata oggi anche il campus più grande su scala globale – pur non avendone uno. Mentre in Italia, seppur ci sia la rete universitaria, manca la sensibilità al digitale, come rivelato da una recentissima indagine europea (2020), che posiziona l’Italia al 25esimo posto in materia di economia e società digitale. Se dunque ci si impegnasse a infrastrutturarsi digitalmente, l’Italia avrebbe il vantaggio di rilasciare un prestigioso titolo europeo (avvantaggiandosi sul Regno Unito che non ne sarà più parte) ad un prezzo che è fra i più competitivi del continente, attraendo dunque risorse nazionali, europee, ed internazionali e ricostruendo un’identità di paese iconico per cultura, diritto allo studio e democrazia.

Le prove generali per una transizione al digitale son state fatte – in occasione del COVID-19 – e mantenendo uno spirito di apertura, curiosità e volontà di crescita e miglioramento, Palermo (e non solo) potrebbe diventare la nostra Londra.

Foto di Rochelle Nicole su Unsplash

OCL

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