
Quando il sociologo polacco Zygmunt Bauman definì la società postmoderna come “liquida,” ci lasciò in eredità una visione del mondo generosa e complessa, che continua a prendere forme sempre nuove, diverse e variopinte. Chissà cosa ne penserebbe, Bauman, se vedesse oggi quella stessa liquidità permeata in aspetti sociali forse allo stesso sconosciuti, essendo ancora inesplorati, in gestazione e incerti, come il mondo del linguaggio che riflette l’identità di genere sul lavoro.
Tutelare l’identità di genere attraverso il linguaggio
Forse molti di voi non lo sapevano, ma da qualche anno le firme in calce alle email di molti professionisti hanno cominciato ad includere una riga prima inesistente, che reca diversi pronomi personali: “lei/lui/loro.” Non sorprendetevi se non lo sapevate. In Italia, a parte un recente articolo di Vogue e qualche altro raro contributo, il tema rimane alquanto sconosciuto. Eppure, discipline complesse come l’antropologia, le risorse umane e gli studi di genere si stanno mobilitando per comprendere come tutelare, dal punto di vista psicologico, lavorativo e interpersonale, un aspetto fino ad ora silente – eppure centrale – della persona: la sua identità di genere. Come possiamo infatti essere sicuri che l’interlocutore all’altro capo del mezzo sia un uomo o una donna, oppure che lo stesso/a si identifichi in un altro genere, diverso da quello veicolato dal nome. E gli “Andrea,” “Sawyer,” “Angel” che ci rispondono da altri paesi (o dall’Italia stessa), come gli/le rispondiamo? Sono e si identificano in maschile, femminile e/o entrambi?
Il misgendering
Questi ‘incidenti’ hanno un nome, ‘misgendering.’ E, considerato lo stato d’informazione sul tema in Italia (assente), questi potrebbe essere uno di quei termini che rimarrà a lungo intraducibile, e quindi alieno e forestiero, mai completamente metabolizzato. Eppure il ‘problema’ dovrebbe interessarci. Uno studio del 2017 condotto dal Ditch the Label riporta infatti che in un campione di giovani intervistati, oltre la metà degli stessi non si identificava come eterosessuale. Come si può rispettare, dunque, questa ‘liquidità’ di genere? Molti paesi si sono equipaggiati da tempo, come la Svezia, che ha introdotto, oltre 50 anni fa, il pronome “hen,” neutro e associabile a qualsiasi identificazione di genere. Lo stesso è accaduto in altri paesi, come cita lo studio di Vogue: nei paesi anglosassoni “them” è riconosciuto come pronome che accoglie e identifica identità non-binarie. Dall’anno scorso ad Hannover (Germania), tutti i comunicati cittadini sono espressi con il pronome neutro; in Spagna, Carmen Calvo, Vicecapo del Governo, ha proposto di modificare il testo della Costituzione con un pronome neutro proprio due anni fa, nel 2018. Ultimo, ma non ultimo, il Consiglio d’Europa ha riconosciuto a una persona di 64 anni, francese, lo status ufficiale di genere ‘neutro,’ creando un precedente che ha ispirato diversi.
La questione in Italia
E in Italia? Nel nostro paese il dibattito rimane tale, un dibattito, appunto. Si parla, specula e teorizza, ma nulla di concreto. Eppure, nonostante un pronome neutro si sia arrivati a candidarlo (essi?), manca l’informazione, l’approfondimento e l’applicazione. Cosa si può fare, però? Cominciare in maniera autonoma a integrare questa semplice riga in calce all’email, ponendosi una domanda che non abbiamo spesso l’attenzione di porci, che diamo per assunto. Ma altri no. In altri paesi l’integrazione nelle firme ha suscitato domande: “mi scusi, cosa intende con quella frase?”; “Siete in diversi a rispondere?” Questi dubbi – alquanto simpatici – ci fanno capire che la vista è allenata a ricevere schemi fissi, ma che allo stesso tempo, se esortata, riusciamo a sorprenderla, innescando piccole rivoluzioni importanti. “Loro.”
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