
di Giosuè Prezioso, Coordinatore accademico e associate professor presso la Florence University of the Arts
Nonostante appaiano distanti, il mondo del lavoro e del teatro si incontrano spesso, reciprocandosi parole prese mutualmente in prestito, modi di dire e giocosità, che spesso li rendono molto vicini. La lingua inglese, che abbonda di parole e pensieri macedonia, presenta casi interessanti, come la parola per ‘sala operatoria’, operating theatre, letteralmente ‘teatro delle operazioni’. Oppure le ‘role descriptions’, le ‘descrizioni dei ruoli’, che seppur sembrano assegnare parti in teatro, in realtà, nel mondo del lavoro, descrivono profili lavorativi. A vederci lungo su queste connessioni sono state le attività di team building, che, sin dagli anni ’50 – quando nascevano negli ambienti industriali britannici – il teatro veniva usato per costruire, consolidare e dirigere intere corporazioni di lavoratori, rifacendosi a tecniche, metodologie ed esercizi tipici dell’arte da scena. Degli studi dell’Università di Arkansas dimostrano che il teatro può avere impatti positivi “sui livelli di tolleranza, prospettiva sociale e accettazione della diversità” nell’ambiente di lavoro, dove il contrario, a volte, è invece la regola. Gli effetti positivi del teatro hanno altresì convinto governi. Uno studio di Tobie S. Stein del Brooklyn College dimostra che l’uso del teatro e delle arti performative a fini di integrazione etnica e sociale può avere risultati significativi in comunità a rischio. Mentre alcuni governi si ingegnano dunque con pratiche di lateralità, qual è la situazione in Italia, dove secondo stime Ocse la qualità della scena di lavoro si posiziona in fila alla coda? Come – e se – dialogano il mondo del lavoro con quello del teatro? Per intercettare qualche segnale, intervistiamo Fabio Mascagni, attore professionista e docente di recitazione che, da anni, segue laboratori di teatro dal vasto pubblico.
Fabio, non essendoci stime è difficile inquadrare la situazione. Credi che il teatro sia opportunamente considerato fra le attività di team building e terapia in Italia?
«Non ancora, ma ci sono dei sensibili cambiamenti a riguardo, segnali incoraggianti. Nonostante un’andatura un po’ pachidermica, anche in Italia, negli ultimi anni, stiamo assistendo ad una vera e propria fioritura di laboratori teatrali all’interno di strutture scolastiche, socio-sanitarie e aziendali, proprio perché i benefici di un percorso teatrale sono appurati e tangibili. In una società concentrata sugli aspetti materiali e consumistici come la nostra, infatti, quello che rischia di rimanere schiacciato è il potenziale umano, soprattutto in realtà business-oriented – che ci chiedono spesso di essere troppo produttivi e ‘disumanizzati.’ Come si può fare a creare squadra in questi ambienti se i collaboratori non si conoscono, non si ascoltano e se non si scopre che è proprio lavorando sulle fragilità che si possono trovare nuove risorse e trasformarle in punti forza? Tutto ciò può riscoprirsi attraverso il gioco teatrale, perché, sembrerà strano, ma queste attività hanno quasi sempre una impronta ludica. In fondo è così che da bambini abbiamo imparato le cose: giocando, e il gioco è una cosa seria. Un gruppo di lavoro che si conosce nelle sue peculiarità può trovare la soluzione a diversi problemi, in un clima più sereno e spesso senza conflitti, che inevitabilmente si generano quando non è in connessione e dialogo. Il concetto di ‘lavoro’ sta cambiando ad un ritmo veloce. In Italia stiamo ancora elaborando il lutto per la perdita del ‘posto fisso’, eppure anche qui il teatro può servire per mantenere una forma mentale aperta al cambiamento e alla trasformazione. Ci sono esercizi teatrali finalizzati proprio ad allenare la capacità di ‘improvvisare’ nuove dinamiche e situazioni attraverso l’uso di personaggi e maschere; questo certo non risolve il problema della disoccupazione, ma sviluppa la capacità di immaginare delle alternative, di aver un atteggiamento flessibile».
Illustraci un esercizio che adotteresti in un’attività di team building
«Ce ne sono tantissimi, ma un esercizio semplice ed efficace è quello che chiamo ‘il furto dell’anima’: si divide il gruppo in due parti, il gruppo A si muove a tempo di musica nello spazio ad occhi chiusi, mentre il gruppo B osserva. Ogni componente sceglie un compagno da imitare, cercando non tanto di rifare gli stessi movimenti, quanto di riprodurne la postura, la qualità del movimento, rubarne l’essenza, l’anima appunto. Si tratta di un ottimo esercizio per sperimentare cosa vuol dire provare a “stare nei panni dell’altro”, che poi è il lavoro dell’attore».
I due più grandi benefici e ostacoli che l’Italia potrebbe avere nell’integrare questi laboratori
«Un beneficio sarebbe imparare ad avere un atteggiamento collaborativo all’interno delle nostre strutture sociali, dal micro, fino ad arrivare al macro, riuscendo a delegare il lavoro perché si è in grado di fidarsi delle competenze dell’altro – non asserragliarsi dietro al proprio ego solo per mantenere una struttura di potere verticale. L’ostacolo è quello che anticipavo prima e cioè la paura e la fatica che ogni cambiamento comporta, ma siamo all’interno di un flusso di trasformazioni socio-culturali, che nel bene e nel male non possiamo arrestare. Per questo bisogna tenersi pronti. Un po’ come quando gli attori stanno dietro il sipario e il direttore di scena avvisa che lo spettacolo sta per iniziare, pronunciando la fatidica frase: “Signori, chi è di scena!”»