
Quando giri per le strade italiane, ad esempio per le arterie sconnesse e butterate della Capitale, senza la pressione degli orari e con la mente sgombra dalla fretta e dal cinismo, ti accorgi che viviamo in una particolarissima Spoon River. Un po’ ovunque, infatti, ci sono croci e altarini improvvisati ai bordi delle vie, come ricordi pietosi dei caduti. Non in guerra: sull’asfalto, in macchina, col motorino. Ma è lo stesso: trattasi di oltre 3mila e 300 defunti all’anno nel nostro Paese (dati Istat). Circa un milione e 350mila nel mondo (cifre Oms), se vogliamo ampliare il raggio dell’orizzonte triste. Le dimensioni rispettano quelle dei grandi conflitti bellici. Allora sorge una domanda: ne abbiamo consapevolezza?
La Spoon River stradale
Viene alla mente il libro di poesie scritto da Edgar Lee Masters all’inizio del 1900, che narra le vicende dei residenti di un paesino statunitense immaginario, Spoon River, vergate come epitaffi sulle lapidi dei defunti. Il testo è talmente celebre da essere spesso preso in prestito nelle narrazioni giornalistiche. Ecco, girando per le nostre strade possiamo ricostruire le vite dei caduti, fermandoci di fronte agli altarini realizzati da amici e familiari, con i biglietti allegati ai fiori o attaccati a un palo, a un albero; a volte inseriti in fogli plastificati trasparenti per consentire alle storie di sopravvivere al tempo. È una toccante Spoon River, che testimonia le migliaia di vite spezzate violentemente in un botto sull’asfalto. Pagine e pagine di memoria che dovrebbero spingere tutti noi a riflettere. Già perché la prima domanda – ne abbiamo consapevolezza? – era retorica. No, non ne abbiamo.
Gli incidenti sono la prima causa di morte dei giovani
Sono numeri che fanno rabbrividire quelli dei crash di carne, sangue e lamiere. Alle statistiche luttuose snocciolate dall’Oms non viene mai dato, purtroppo, il corretto rilievo: nel mondo gli incidenti, non le malattie, costituiscono la prima causa di morte dei giovani di età compresa fra i 5 e i 29 anni. Ripetiamo: la prima. Chi guida nel Belpaese non ha difficoltà a comprenderne i motivi. In Italia (dati Istat), nel 2018 si sono verificati 172mila e 553 incidenti con lesioni. Le vittime: 3mila e 334. I feriti: 242mila e 919. Dietro a questi numeri ci sono tragedie familiari, persone costrette a cambiare il proprio stile di vita, una formula anodina per non dire «inchiodate per sempre su una sedia a rotelle».
La distrazione ti toglie la vita
La prima causa degli incidenti italiani è la distrazione. Poi ci sono il mancato rispetto delle precedenze e, ovviamente, la velocità elevata. Loro, le macchine, sono innocenti, perché ormai strasicure. Non esiste paragone coi veicoli del passato. I colpevoli sono i conducenti. Sotto accusa è anche l’uso dello smartphone, pure da parte degli scooteristi. Mettersi, poi, in sella a una due ruote con l’accelerazione di un razzo vettore, richiede una presa di coscienza. Certo, non si capisce perché vengano realizzati mezzi che superano altamente le velocità consentite dal Codice. Ma questo è un altro discorso.
I costi sociali
Uno Stato deve considerare anche l’aspetto cinico della vicenda. Cioè il prezzo dei crash per la comunità. Secondo l’Istat ammonta a oltre 17 miliardi di euro all’anno, cioè all’1% del Pil. Una manovra economica. E allora arriviamo alla seconda domanda, che stavolta non è retorica: si può fare qualcosa? Probabilmente sì, ma prima sarebbe necessario assumere consapevolezza della dimensione del problema. E poi iniziare a mettere in atto progetti strutturali, non iniziative spot. A cominciare dall’educazione stradale. Partendo dai giovani scolari. Velocemente, senza perdere altro tempo. Ecco, questo è l’unico punto dove «schiacciare a tavoletta» dovrebbe essere non solo consentito, ma auspicabile.
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