
Intervista a Mino Sferra
Mino Sferra, attore a tutto tondo (il recente Terra Bruciata e l’ultimissimo Time Perspectives uscito negli Usa, sono due successi del grande schermo, pluripremiati dalla critica, che lo hanno visto protagonista), con spassose interpretazioni in spot televisivi, insegna dizione e recitazione in un ateneo romano ed ha una propria scuola di teatro, dove tiene corsi sia per cultori della materia sia per aspiranti attori professionisti. Per dirla in breve: 35 anni di esperienza alle spalle.
Chi sono gli studenti della sua scuola, a parte, s’intende, gli aspiranti attori?
«Non è possibile delineare una profilazione specifica. Ai miei corsi partecipano persone di tutta Italia, di età compresa fra i 14 e gli 80 anni. Sono professionisti, manager, avvocati, politici, studenti universitari o giovanissimi incuriositi dall’esperienza del palcoscenico. In genere l’input che spinge a frequentare una scuola di questo tipo, o a iscriversi a corsi individuali, è quello di voler imparare a esprimersi meglio, acquistare autostima, comunicativa, migliorare le relazioni con gli altri. La dizione, poi, è un viatico importante, perché ti fa assumere sicurezza e consapevolezza, e rappresenta un valore aggiunto per giovani e non».
Non bisognerebbe insegnare la dizione a scuola, come si fa con l’ortografia?
«Sì, assolutamente. Dovrebbe essere materia di studio delle scuole primarie. I bimbi avrebbero bisogno di imparare i fonemi in maniera corretta, e, visto che la loro mente è più elastica, l’apprendimento si rivelerebbe molto semplice. Quello che assimilano, costituirà un bagaglio che li accompagnerà nel lungo percorso educativo e lavorativo. Un buon accento è per sempre, si potrebbe dire, parafrasando una pubblicità. Nella situazione attuale, invece, molti bambini o giovani rimangono legati alla cadenza familiare, o a quella delle amicizie. È una lacuna del nostro sistema formativo: impari a scrivere, ma non a parlare il corretto italiano».
Quanto è importante per i giovani il public speaking?
«Basti ascoltare due studenti: uno che è stato formato, sa stare di fronte a un pubblico, e quindi comunica, con la giusta pronuncia, cattura l’attenzione con il ritmo della dialettica, le pause rafforzative. L’altro, al contrario, non avendo alcuna nozione, è costretto a improvvisare: ergo, parla, dice delle frasi, magari importanti e con profondi contenuti, ma non tocca le giuste corde e non riceve feedback dalla platea. Inutile aggiungere altro. In questo senso, il public speaking è come un pentagramma, e le parole sono note. È una soft skill fondamentale al giorno d’oggi. Lo sanno bene alcune università».
Quali sono gli esempi teatrali, televisivi, cinematografici da seguire?
«Premetto che per i giovani adesso è più facile, perché si va online, pure col telefonino, e si ha a disposizione un archivio audio e video infinito. Sono tante le belle voci, soprattutto del passato, anche recente, che hanno segnato l’oratoria. Penso a Gassman, a mio personale parere il più grande di tutti, e alla sua metrica con la quale declamava, ad esempio, la Divina Commedia. Consiglio a chiunque di andare a riascoltarlo. Penso a Cosimo Cinieri – che purtroppo ci ha lasciato (il 19 agosto scorso, ndr) – e alle sue letture di Leopardi. Semplicemente straordinario. Tornando ai giorni nostri, mi vengono in mente delle grandi donne, come Pamela Villoresi e le sue, fra le tante cose, recitazioni di poesie, ed Elisabetta Pozzi, magnifica interprete delle tragedie greche. E senza voler far torto a nessuno, anche per non essere troppo lungo, mi fermo qui».