
Intervista a Catia Bruno, Consulente nel settore alberghiero
(a cura di Andrea Mazzeo)
Da quanto tempo lavora nel mondo dell’hospitality?
«Lavoro nel mondo dell’hospitality dal 1996 e per la prima volta mi trovo a fare delle considerazioni su questo settore che ho amato e amo profondamente. Forse perché l’intervista arriva in un momento particolare della mia vita professionale, forse perché mi avvicino ai 50».
Cosa significa lavorare in questo settore?
«È un settore che continuo a chiamare “alberghiero/Hotellerie” perché proprio non riesco a definirlo come Hospitality Industry. Fatico a rappresentarlo come un’industria, nonostante la presenza di grandi catene alberghiere diffuse in tutto il mondo che sfornano standard di qualità globali a cui i diversi hotel devono in qualche modo attenersi. In realtà è un settore fatto di tante persone che con dedizione e passione ogni giorno accolgono milioni di ospiti. Questi “valori” vanno tenuti ben presenti se si vuole lavorare in questo settore. È comunque un comparto economico profondamente cambiato nelle sue fondamenta negli ultimi anni».
Quali nuove logiche sono entrate nell’industria alberghiero?
«L’arrivo e lo sviluppo delle grandi catene ha portato logiche nuove di produttività ed efficienza; ha raffinato l’intero sistema di gestione, ma rubato un po’ di spontaneità e spirito d’accoglienza. Le catene hanno introdotto metriche necessarie alla misurazione del raggiungimento o non raggiungimento di obiettivi. Questo significa aver introdotto nuovi meccanismi di cultura aziendale votati alla prestazione, alla misurazione e ai moderni sistemi di gestione delle risorse umane. E qui si crea la sfida più grande. Si crea infatti una perpetua contraddizione organizzativa per cui le persone costituiscono l’organizzazione, ma spesso sembrano non essere più al centro dell’ ecosistema di servizi. E invece le persone fanno la differenza. Sempre».
Pensa che l’industria sia cambiata negli ultimi anni?
«L’arrivo dei fondi d’investimento ha iniettato nel mercato un fiume di denaro necessario alle costose ristrutturazioni di alcuni alberghi tra i più belli del nostro Paese. Di contro queste “hard renovations” hanno spesso privato queste strutture della loro anima, di quella magia che non si legge tra le pieghe di un conto economico. I fondi si muovono su assi d’investimento che poco hanno a che fare con le performance dei singoli. Quindi il paradosso diventa quello di avere una cultura degli obiettivi in aziende il cui destino è legato a dinamiche personali, individuali, relazionali. Poi ci sono gli imprenditori indipendenti che con coraggio affrontano le sfide quotidiane di un mercato sempre più competitivo, alcuni di loro ancora troppo focalizzati sulle diatribe interne o peggio familiari e poco lungimiranti. Qui la sfida più grande è rappresentata dall’introduzione di innovazione a 360°; dal revenue management al digital marketing, dalla gestione delle risorse umane al procurement e così via. Insomma un quadro complesso ma al contempo affascinante».
Quali sono le competenze per intraprendere una carriera nell’hotellerie?
«Personalmente, e sulla base della mia esperienza, ne scelgo tre che ritengo essenziali oggi. La resilienza, parola inflazionata, ma estremamente valida per i colleghi che sempre più spesso devono guidare cambiamenti profondi. La coerenza e l’etica nel comportamento, non passano mai di moda e in questo contesto contraddittorio ne abbiamo un gran bisogno. La capacità di imparare a leggere i contesti, è un’abilità fondamentale che presuppone, consapevolezza di sé, attenzione a ciò che avviene e capacità di muoversi con flessibilità. Aggiungerei, soprattutto per i giovani che intendono entrare in questo settore, una formazione seria e rigorosa e un aggiornamento continuo, perché è un mondo in veloce evoluzione».