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Welfare aziendale

welfare aziendale

di Massimiliano La Rocca, dottore commercialista

Welfare aziendale: il “fare bene”

Spesso si sottovaluta l’importanza del benessere al lavoro. Ma è ormai dimostrato che un ambiente di lavoro sereno, adatto alle esigenze dei lavoratori, che miri alla riduzione dello stress con sistemi organizzativi, adattamenti e politiche di welfare aziendale misurate in ragione della specificità della tipologia di impiego e del luogo di lavoro, incentiva, e spesso innesca, processi di incremento della produttività dei lavoratori e in generale dell’impresa. La traduzione della parola “welfare” letteralmente è “benessere”, o meglio “stare bene”. Il termine viene sempre più associato al lavoro, o meglio al benessere al lavoro, e non a caso. Mediamente un lavoratore passa circa metà della giornata attiva (cioè nelle ore non dedicate al sonno) al lavoro e per andare o tornare dal lavoro. I complessi sistemi di welfare delle grandi aziende, multinazionali e colossi industriali sono basati essenzialmente sull’osservazione della giornata media di un lavoratore, e riflettono ogni momento di essa.

Cosa si intende per welfare aziendale

Il welfare parte dall’alimentazione, si pensi ai buoni pasto o a strumenti più evoluti come il “pass shopping”. Il welfare passa poi per il viaggio da casa a lavoro e ritorno, ad esempio agevolazioni per la mobilità, trasporti interaziendali. Ma welfare significa anche le pause lavorative (pranzo, coffee break). Oppure la cura della salute e del tempo libero del lavoratore e dei familiari e conviventi. Per esempio, assistenza sanitaria integrativa, asili nido aziendali o interaziendali, polizze assicurative, rimborso spese scolastiche e borse di studio per i figli, circoli sportivi interaziendali o convenzionati. Non ultimo, il fare bene significa anche promuovere strumenti volti all’incremento della professionalità (corsi di formazione, linguistici, viaggi di formazione e lavoro). Oppure strumenti volti al supporto delle vacanze (viaggi premio) e a scopi di previdenza (fondi pensione integrativi). Nelle piccole realtà, purtroppo, il welfare aziendale è visto come un costo che va oltre le possibilità dell’impresa. Le moltissime aziende italiane definibili “piccole imprese” (da o a 20 dipendenti), che costituiscono l’intelaiatura produttiva del nostro Paese, faticano a garantire il “minimo sindacale”. E per questo difficilmente concedono “superminimi” o benefit aggiuntivi se non obbligate dai contratti collettivi.

Sindacati, imprese e welfare

I sindacati hanno recentemente iniziato il lento e farraginoso processo di introduzione di “pillole” di welfare negli accordi collettivi. Hanno però probabilmente commesso un duplice errore di valutazione. Il “benefit”, quando è “obbligatorio”, perde di efficacia e credibilità sia agli occhi dei datori di lavoro che dei lavoratori. I datori di lavoro, proprio perché obbligati, lo vivono come un costo aggiuntivo e non come uno strumento di accrescimento della produttività. I lavoratori lo vivono come qualcosa a loro “dovuto” e per il quale trarre solo parziale ristoro dalle “ingiustizie sociali” che subiscono. Non ne colgono il giusto beneficio in termini di qualità di vita, da “restituire” poi all’azienda come aumento della produttività. Una delle spiegazioni di tale cronico ritardo del nostro Paese nell’accogliere simili strumenti di crescita sociale e produttiva è da ricercare nella lotta di classe. Quest’ultima contrappone lavoratori e datori di lavoro fin da quando sono diventati tali dopo la fine della schiavitù e la rivoluzione industriale. Una lotta assolutamente sacrosanta nell’ottocento e nel novecento ma ormai vetusta e superata. Non ne sono responsabili solo sindacati e politici, “nel bene e nel male” entrambi espressione del Popolo.

La situazione in Italia

Sicuramente complice è stato il ritardo storico accumulato anche in termini di unificazione della Nazione. Quella Italiana è una delle più giovani, tra quelle occidentali o avanzate come Regno Unito, Francia, Germania, Stati Uniti. Ma non abbiamo più scuse. Se vogliamo davvero crescere (o meglio riprendere a crescere), dobbiamo come sempre rimboccarci le maniche e partire “dal basso”, dalla base. Dal luogo di lavoro, dai colleghi e dai datori di lavoro di ognuno di noi. Rendendoci conto che le contrapposizioni e i litigi (tra lavoratore e datore di lavoro, tra sindacati, tra politici, tra Nazioni) hanno anzitutto l’effetto di fare spazio agli altri (Popoli). Sia a quelli che sono davanti, sia a quelli dietro ma che viaggiano più veloci. La dialettica e la discussione a composizione delle esigenze è la più alta espressione di democrazia, a patto di non indurre ritardi macroscopici. Assurdo che per garantire ai lavoratori un’assistenza sanitaria integrativa del Servizio Sanitario Nazionale si debba “obbligare” i datori di lavoro a farlo. Tutto questo con costi in termini di tempi maledettamente lunghi per le vertenze sindacali. Le vertenze spesso richiedono anni per aumenti dello stipendio lordo di 20 euro mensili, figuriamoci per una polizza sanitaria. Che poi, se i fondi della polizza sanitaria o della formazione obbligatoria vengono gestiti da Enti Bilaterali sempre espressione dei sindacati stessi, perdono fin dall’origine il senso e la credibilità necessari a farne veri strumento di welfare. Viene da (mal) pensare che siano in fondo solo modi alternativi per raccattare i fondi sempre meno cospicui a causa della perenne “caduta libera” delle iscrizioni ai sindacati.

Occorre semplificare il welfare aziendale

Forse, è già da tempo venuto il momento di semplificare davvero. Dar vita a strumenti di welfare seriamente fruibili, rendendoli davvero convenienti per l’azienda ad esempio innalzando le soglie “vetuste” di esenzione contributiva e fiscali dei benefit e semplificandone la fruizione. Basti citarne alcuni per comprenderne l’obsolescenza. Primo fra tutti il buono pasto giornaliero (cartaceo), che ancora oggi è esente da contributi e imposte solo fino al valore di euro 5,16, che poi è la trasposizione in euro delle “vecchie” 10 mila lire. Siamo fermi al 2001, anche se va ricordato che il buono elettronico è invece esente fino a 7 euro al giorno. Eppure, la scorsa settimana ho pranzato spendendo, per un hamburger con patatine senza bibita, 12 euro (comprensivi di consegna in ufficio: ho usato un servizio di cibo a domicilio, realmente “sostitutivo” della mensa “interna” aziendale). Ancora: il fringe benefit della “liberalità in denaro”, cioè il premio in soldi, è esente solo fino alla soglia annuale di 258,23 euro per ogni collaboratore ossia le 500.000 lire del “vecchio conio”. Previo accordo sindacale (con procedure infinite), fino a 3.000 euro annuali per lavoratore il “premio produttività” viene “detassato”, cioè tassato “solo” al 10%, e non assoggettato a contributi ma solo fino a 800 euro all’anno. La previdenza complementare annuale (o pensione integrativa) pagata per conto di un dipendente è esente solo fino a 5.164 euro (10 milioni di lire), le casse sanitarie fino a 3.615,00 euro (7 milioni di lire). Potremmo continuare, ma è sufficiente a capire che è come se gli altri (Paesi) usassero lo smartphone e noi il piccione o il telegrafo.

OCL

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