
Il valore dell’industria culturale
Nell’ articolo “Con la cultura (non) si mangia?” si era cercato di fare il punto sull’industria culturale e sulle potenzialità della stessa di poter contribuire al PIL e al mercato del lavoro. E le notizie sono più che soddisfacenti: “in Italia,” cita il Sole 24 Ore, “l’industria culturale vale 48 miliardi, e cresce con un valore del +2,4% (contro l’1,5% del PIL [2017]).” Una percentuale ancora ‘grezza’, confermano gli esperti di Ernst & Young, che vedono nella stessa un potenziale di 72 miliardi. Se dunque l’industria culturale cresce, è forte, ed è più forte dell’economia italiana stessa, qual è, invece, lo stato di formazione delle nuove generazioni di ‘cultural managers’ che avranno la responsabilità di proteggere questo enorme capitale, che è il più prestigioso al mondo?
La formazione artistica/umanistica in Italia
Secondo uno studio dell’Ocse riproposto da Repubblica, titoli come “lettere e formazione artistica” rappresentano il 30% dei percorsi universitari prescelti. Un numero “poco legato ai bisogni dell’economia”, cita lo studio, che invece è postivo sulle discipline Stem (82% d’impiego) e quelle economico-giuridiche (81%). Il mondo della cultura, invece, è fermo al 74%. Se i pronostici di E&Y sono corretti, però, l’industria della cultura italiana ha il potenziale di crescere di circa il 50% rispetto ad oggi (producendo dai 48 miliardi attuali, 72). Ciò significa nuovi introiti, nuove prospettive e tanti, tantissimi posti di lavoro, il doppio. Come si può, dunque, parlare di bisogni “poco legati all’economia” con questi dati?
Un sistema di istruzione che andrebbe rivisto
Il ‘tarlo’, forse, è nel sistema, e forse proprio in quello dell’istruzione, che è il primo fra gli ostacoli di una struttura che forse va rivista proprio ab ovo. Dalla formazione e l’orientamento. Si parta con la scuola superiore secondaria: cinque anni, contro i quattro della maggior parte delle ‘cugine’ europee. Un anno in più già in cassa. E poi il criptico sistema ‘3+2’, che nonostante gli sforzi interpretativi del Processo di Bologna (1999), lascia gli studenti italiani – e gli stranieri, quelli che vorrebbero a studiare nel nostro paese – spesso nel limbo “ho una laurea?”, “un master?”, “come si spende ‘la triennale’ all’estero?”. Dipende. Dipende dal paese ospite, dall’università e anche un po’, a volte, dal caso. Questo 30% di studenti (e non solo!), dunque, si trova a doversi inserire in un sistema complesso, confuso, famoso per essere troppo teorico, poco allineato e squalificante, che inserisce i giovani già due anni più tardi rispetto ad altri paesi – se tutto va bene! E la frustrazione si sente: crescono infatti gli iscritti alle università private, che allineandosi spesso a sistemi stranieri, garantiscono maggiore efficienza.
Aumentano gli studenti italiani che vanno all’estero
Così come gli esodi di studenti italiani che studiano all’estero: solo in Olanda, l’anno scorso, il numero è aumentato di oltre il 270%. Un sistema così voluminoso e crescente, che ha portato alla creazione – esilarante, organizzata, ma su cui c’è da riflettere – del sito ‘mammedicervelliinfuga.com’, una forma di ‘assessorato diffuso’ alla previdenza ‘fuori sede’, che è sintomo di quanto il fenomeno si sia già tradotto in problema: risorse umane, economiche e affettive disperse – e forse, più irreparabilmente, perse.Il numero di italiani che vive fuori dai confini italiani, riporta infatti l’agi, è di 5 milioni – lo stesso numero di poveri assoluti in Italia, curiosamente – che continua a crescere ogni anno, soprattutto in caso di studio e formazione: +9% solo nel 2016. E se dunque la vocazione di un giovane italiano su tre è quella di intraprendere un percorso universitario culturale e/o artistico, il numero di potenziali operatori della cultura, manager, artisti e pensatori che lascia l’Italia è enorme. Così come diventa enorme e crescente la distanza da quel pronosticato ’72 miliardi’ di crescita potenziale.
Cosa si fa, dunque?
Il cambiamento per far crescere la cultura
Innanzitutto dovrebbe dissipparsi il sentimento negativo e disfattista sulla cultura: che potrebbe dare tanto, ma tanto da ‘mangiare’, lo dicono i numeri. Che si rianimi dunque il sentimento di fiducia nella cultura e nello studio della stessa. Bisognerebbe poi snellire ed allineare l’istruzione: magari rivedendo il numero di anni e la modalità (forse meno teorica?) d’istruzione. Bisognerebbe infine re-integrare borse di studio per i meno abbienti e rendere attraente agli italiani – ma anche agli stranieri, che portano tante risorse – le università italiane, che potrebbero insegnare tantissimo in materia di cultura artistica. Potrebbero fare scuola. Eppure i 72 miliardi sono ancora un miraggio, il numero di laureati e operatori (soprattutto culturali) negativi. Ciò ricorda un vecchio proverbio pugliese che cita: “c’è pesce in abbondanza, eppure ci son gatti che muoiono di fame”.