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La vita è un viaggio: permettiamolo

di Silvia De Angeli

L’anno che si è concluso ha registrato appena 23mila sbarchi in confronto ai 117mila del 2017 e ai 173mila del 2016.

L’emergenza immigrazione si è allora conclusa? Assolutamente no. No perché 23mila non è “appena” e non è soltanto un numero: 23mila sono persone.

Alcune persone, quelle che riescono a superare i muri che circondano lo stivale. Altri invece finiscono il proprio viaggio nel Mediterraneo, le cui acque scure sono ormai divenute il cimitero più grande d’Europa.

Infatti il tasso di mortalità nel Mare nostrum è passato dal 2,4% del 2017 al 5,4 del 2018.

“Un’ altra catastrofe consumatasi oggi al largo di Lampedusa…” – sembra di sentire un monotono ritornello nei notiziari – “Si stimano circa trecento dispersi”. Notizie come onde: vanno e vengono. Storie di viaggi dal duplice sapore: vita e morte e mescolate assieme. Racconti di speranza tracciati nel deserto per lunghi mesi. Bambini senza sorrisi né giochi, madri violentate e famiglie divise a tavolino come ettari di terra. Situazioni inaccettabili.

Solidarietà internazionale, dove sei?
Ci sono viaggi e ci sono viaggiatori: quelli senza alternativa di chi emigra e quelli turistici di chi visita. Poli opposti: fuga e piacere.

C’è chi trascorre le ferie lontano da casa per un rapido viaggio, circoscritto, limitato ad un assaggio della cucina locale, all’acquisto di qualche souvenir e alla raccolta esagerata di fotografie.

Il turista predilige le cose del luogo che visita: paesaggi, monumenti e oggetti tipici; non conosce le persone, i loro costumi e valori reali.

Noi visitiamo, assaggiamo, guardiamo, ma raramente conosciamo gli uomini.


Questo è il problema di fondo alla questione umanitaria attuale.

La verità è che non ci piace mettere in discussione la nostra identità, aprirci all’altro.

Noi e loro. Noi, che passiamo le vacanze nelle capitali europee e loro, slavi, arabi, africani, asiatici: persone che compiono un viaggio differente.
Rimaniamo chiusi su noi stessi, tenendo una posizione di guardia, di inutile difesa e di superiorità. Indifferenza.
Noi e loro. Tutti, sin da piccoli, immaginiamo un viaggio, il nostro, di cui saremo protagonisti.

Nelle aule di scuola ci incantavamo a fissare le carte geografiche alle pareti, guardiamo film hollywoodiani e sogniamo, un giorno, di poter visitare quei luoghi con palme colossali come i grattacieli, dove tutto è più grande.

Pianifichiamo, fantastichiamo, stiliamo liste di città che vorremmo esplorare e paesaggi che ci piacerebbe contemplare.

Il viaggio di molti invece termina con la partenza. Sono migliaia quelli di cui non vogliamo conoscere i nomi, ci interessa solo che non creino problemi a noi e che fuggano altrove.

Percorrono lunghi periodi nel deserto ed alcuni là ci rimangono, abbandonati, sotto il sole cocente.
Chi ha disponibili molte mazzette può “comprarsi” un viaggio in Jeep e, magari, arrivare al mare in poche settimane. E da lì un altro viaggio.

È una continua partenza. Il copione di ogni storia lo conosciamo memoria: scafisti, navi da trenta per trecento persone, un boccone di pane solo ai migliori “offerenti” e gli altri ammassati nelle estive senza nemmeno l’aria per respirare. Poi…vada come vada. Si sentono pianti e preghiere ma purtroppo tutto è vano nella lotta titanica contro il Mediterraneo.

Queste trecento persone non sono padroni del proprio destino: non è un viaggio, è una fuga, è una ricerca costretta.
Il viaggio è libertà. È felicità. È un moto nel tempo, uno spostamento fisico o un cambiamento interiore di cui si è padroni. Il viaggio impreziosisce la vita sino ad esserne metafora. Allora quella di queste trecento persone è vita?

Basta parole gridate al vento. Basta sciocchezze quali: “Ci rubano il lavoro” – “Non li vogliamo mantenere” – “…che restino a casa loro!”.
Come si può sbattere la porta in faccia a ragazzi che scelgono l’Italia come ultima spiaggia, come unico porto per il futuro?
Per non citare i loschi giri economici alla base di queste macchine di morte.

Stiamo parlando di vite umane, persone che abbandonano la propria terra per sfuggire al fatal destino.

È istinto di sopravvivenza, ogni essere umano agirebbe similmente.

È doveroso permettere a tutti di avere il proprio viaggio, la propria vita.

OCL

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