
Antonella Salvatore
La resilienza è la capacità di fare fronte ad un evento traumatico ed imprevisto senza rotture, senza riportare danni irreparabili. La resilienza è quella capacità che ci garantisce continuità, la nostra possibilità di andare avanti e risollevarci quando ce ne sarà bisogno, la nostra abilità di avere un piano contingente quando necessario. Perché quello che è certo è che prima o poi cadremo, mentre non è affatto certo che saremo capaci di rialzarci, a meno di non avere un piano, a meno di non essere resilienti appunto.
Ma da dove inizia la resilienza? E come si fa ad essere resilienti?
Il nostro non è un paese particolarmente resiliente; ci sono aziende resilienti e ci sono aziende che si occupano di resilienza, ma il sistema paese non è resiliente.
Se fossimo resilienti impareremmo dai terremoti e non continueremmo a costruire case che crollano e fanno morti. Se fossimo resilienti faremmo la manutenzione dei ponti; la nostra resilienza, dopo un incidente, si limita a chiudere il passaggio sui ponti per evitare altri morti. Se fossimo resilienti capiremmo che il nostro patrimonio culturale ed artistico è la nostra fortuna, e faremmo allora di tutto per proteggerlo e per farlo vivere ai turisti. Ed invece pezzi che cadono e bellezze lasciate all’abbandono. Se fossimo resilienti faremmo formazione continua e svilupperemmo competenze.
Tuttavia, il tema resilienza è molto attuale, se ne parla molto in ambito aziendale, si parla proprio di business continuity e ieri ne abbiamo parlato al Business Continuity Forum a Milano, con Panta Ray, unica azienda in Italia, e forse in Europa, ad occuparsi di business continuity e resilienza, e con altre aziende che ben comprendono l’importanza di questa materia.
Nel mio intervento di ieri, ho detto che il tema va affrontato anche, e prima, da un punto di vista individuale. In fondo, le aziende sono fatte di persone quindi le aziende sono resilienti se le persone che vi lavorano sono resilienti.
Più rifletto su quello che faccio e più mi rendo conto che, in realtà, di cosa mi occupo se non di aiutare i giovani ad essere resilienti? La capacità non si acquisisce da adulti ma si allena e si pratica già da giovani.
Alleniamo i giovani a rispondere a stimoli diversi, a risolvere problemi, ad affrontare ambienti che non conoscono con persone che non conoscono. Li incoraggiamo a costruire relazioni e ponti, a risolvere conflitti, e lo facciamo per abituarli alla resilienza.
Alleniamo i giovani a lavorare e a fare lavori che forse non faranno mai più tra 5 anni, ad avere contatti e relazioni con persone con cui dovranno andare necessariamente d’accordo.
Alleniamo i giovani a capire i contesti, a riconoscere le opportunità così come ad individuare i rischi e le minacce, a sviluppare piani contingenti e creatività per risolvere problemi.
Per questo dico che li alleniamo alla resilienza.
A quelli che dicono che sbagliamo noi in università, noi che vogliamo fare da ponte tra accademia e mondo del lavoro, agli accademici che mi hanno risposto che le università devono solo fare ricerca e generare conoscenza e non pensare al lavoro e al futuro, vorrei chiedere: ma la conoscenza generata a cosa servirà se poi non ci sarà nessuno a saperla applicare?
Ma la conoscenza creata non serve forse a rendere il mondo migliore e a trovare soluzioni migliori per la vita di tutti? E quali persone, se non quelle resilienti, saranno in grado applicare questa conoscenza e utilizzare queste soluzioni nei modi e nei tempi giusti?
Solo le persone resilienti saranno in grado di affrontare il futuro, così come solo le imprese resilienti sono in grado di affrontare una crisi economica o un momento di difficoltà.