
P. Gabriele Beltrami Ufficio Comunicazione Scalabriniani, www.scalabrini.net, www.ascsonlus.org
Le politiche di accoglienza dell’Europa rappresentano in questo periodo “il” tema su cui si sta giocando la tenuta dello stesso progetto dell’Unione Europea. In questo quadro l’integrazione sociale ed economica di migranti e rifugiati è “la” sfida da sostenere nel lungo periodo se si intende costruire una società e non un agglomerato di monadi a sè stanti.
Se guardiamo al numero di migranti giunti in Italia nel primo semestre del 2018, esso risulta in calo di oltre l’80% rispetto a un anno fa (cf. immagine 1).
Ciò emerge dall’analisi statistica quotidianamente a cura del Viminale (http://www.interno.gov.it/it/sala-stampa/dati-e-statistiche/sbarchi-e-accoglienza-dei-migranti-tutti-i-dati). Il report rileva tra l’altro una notevole riduzione dei migranti arrivati nel nostro paese. Per quanto riguarda quelli provenienti dalla Libia, mentre nel 2017 si sono segnalati 81.523 arrivi, nel primo semestre del 2018 si è registrato un calo dell’85,85%, contando 11.535 arrivi. Da qui si comprende certamente parecchio del fenomeno migratorio attuale assai più contenuto della percezione del cittadino medio.
La distorsione e allontanamento dalla realtà dei fatti deriva in notevole misura dalla “ignoranza”, nell’etimo più corretto del termine, e dalla superficialità, e ahimè asservimento politico, dei media. L’Ottavo Rapporto (2018) annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro in Italia (http://www.lavoro.gov.it/notizie/Pagine/Ottavo-Rapporto-annuale-Gli-stranieri-nel-mercato-del-lavoro-in-Italia.aspx) presentato il 6 luglio scorso mostra come nel corso degli ultimi anni la centralità della componente straniera nel mercato del lavoro si sia imposta con una particolare evidenza. Questo è avvenuto non solo per l’importanza che i lavoratori stranieri hanno e continuano ad avere nello svolgere specifiche occupazioni, ma anche per aver controbilanciato, fino al 2015, la contrazione occupazionale che ha investito la componente italiana, mentre, a partire dal 2015 e per tutto il 2016 l’incremento dell’occupazione straniera ha mostrato un andamento sincronico rispetto alla crescita dell’occupazione da parte degli “autoctoni”. Nel 2017, poi, il rafforzamento della capacità inclusiva del mercato del lavoro ha riguardato sia nativi sia stranieri, ma per la prima volta la centralità che la forza lavoro straniera aveva avuto nel tenere su i trend occupazionali sembra si riduca, mentre si osserva una più decisa crescita dell’occupazione nativa.
Si registra come diffuso, comunque, il concetto che lo straniero non possa offrire un contributo alla società o competenze specifiche, anzi tolga occasioni di lavoro ai nativi. Nel medesimo rapporto si può leggere come la quasi totalità dei lavoratori stranieri svolga un lavoro dipendente e più del 70% svolga mansioni da operaio. La preponderanza di profili prettamente esecutivi è chiara e confermata anche dalla scarsa presenza di stranieri impiegati in ruoli dirigenziali (appena lo 0,4% degli occupati è dirigente e lo 0,7% è un “quadro”, a fronte dell’1,9% e del 5,8% degli italiani) – (immagine 2).
Emerge altresì chiaramente come la dispersione di stranieri laureati, in particolar modo coloro in possesso di competenze tecnico-scientifiche sia ampia: nel caso dei cittadini stranieri non UE, le percentuali si assestano al 26,0% nel caso di possessori di un titolo STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) – il 90% nel caso degli italiani – e al 24,4% – gli italiani sono più dell’80% – nel caso dei “Non STEM”. Di conseguenza il 47,5% dei laureati Extra UE con titolo di laurea in una disciplina STEM è impiegato in qualifiche low skill, a fronte di un misero 1,8% degli italiani e del 21,9% dei comunitari.
Perché focalizzarsi sul binomio migranti/lavoro?
Certamente il portato insieme simbolico e materiale di svolgere un impiego o una professione è uno degli aspetti decisivi su cui puntare per favorire l’integrazione. A parte il valore strettamente economico, legato alla sussistenza personale o prodotto dai lavoratori immigrati nel paese che ospita, il lavoro dà il via a dinamiche oltremodo positive sia a livello individuale sia a livello di comunità.
È un fatto assodato che essere inserite in un contesto lavorativo può consentire alle persone appena giunte nel paese di apprendere più velocemente la lingua, le abitudini, le regole implicite ed esplicite della nazione in cui si trovano.
Senza contare che il lavoro permette ad ogni persona di rafforzare la fiducia in se stessa, di costruire relazioni con la comunità e il territorio in cui ci si trova a vivere, di poter riconoscere come “casa” anche un luogo a migliaia di chilometri dalle proprie radici.