
Paola Scotto di Frega
“Flessibilità, adattabilità, creatività, predisposizione al lavoro in team, buone doti comunicative e relazionali, una spiccata attenzione ai dettagli e un’eccellente attitudine al problem solving.” Sono caratteristiche che oggi si trovano in quasi tutte le offerte di lavoro, a prescindere dalla posizione richiesta. Questo perché sono competenze trasversali, che non richiedono capacità tecniche legate a un settore o a specifiche mansioni. Si tratta di doti personali ricercate in qualsiasi contesto lavorativo, perché determinano il modo in cui un professionista affronta e si adatta a un ambiente circostante in continua evoluzione, favorendo, di conseguenza, anche la crescita delle aziende.
Queste competenze, che accomunano le “n” proposte lavorative su vari portali/social, appartengono alla leggendaria categoria delle soft skills. Ma siamo proprio sicuri che in Italia le soft skills siano realmente considerate prioritarie rispetto alle hard skills? Siamo davvero pronti a dare spazio, oltre che alle conoscenze tecniche anche all’individuo e alla propria personalità?
Nonostante siano ripetutamente elencate nella lista dei requisiti imprescindibili da possedere per accedere a un colloquio, una volta ottenuta questa possibilità, siamo realmente valutati per la nostra “flessibilità e adattabilità”, per la “creatività e capacità comunicativa” e per la nostra “capacità di leadership”? Oppure la selezione avviene ancora solamente sulla base dell’ “esperienza professionale”, il “livello di studi” e i “titoli”? Nella fase di screening dei CV, quante volte si prediligono gli anni di esperienza vs. un’attitudine personale? Spesso, ma per fortuna non sempre. Negli Stati Uniti sono tenute sempre più in considerazione esperienze non strettamente legate all’ambito lavorativo, che però possono dimostrare le qualità di un candidato. Facciamo l’esempio di un veterano. L’ambiente militare è noto per essere gerarchico, multiculturale, imprevedibile e, a volte, anche crudele. Un contesto del genere richiede saper fare squadra, essere leader, pensare in modo critico e reagire agli eventi in modo rapido. Queste qualità sono le stesse che determinano il successo di un team e di un’azienda e quindi considerate fondamentali nella selezione di una risorsa.
Diversamente, in Italia, non solo le aziende non sono pronte ad accogliere questo cambiamento, ma manca una preparazione di base da parte dei professionisti, che dovrebbe idealmente iniziare nelle scuole. Il problema è che però le soft skills non si imparano con il metodo tradizionale della “lezioncina”, tipico del nostro sistema scolastico. Richiedono un approccio diverso, innovativo e interattivo. Una delle chiavi, secondo me, è focalizzarsi non solo su “cosa” insegnare, ma sul “come”, perché le soft skills vanno stimolate, sviluppate e praticate. E sono quelle sulle quali è difficile eccellere, grazie alle quali però si ottengono le promozioni. Si può essere i migliori del mondo nel proprio lavoro, ma se non si è in grado di interagire con l’altro, di comunicare, di lavorare in team, di autopromuoversi, di accettare e prendere spunti da un ambiente multiculturale e di adattarsi, allora sarà impossibile costruire relazioni, farsi notare e quindi crearsi opportunità per un avanzamento di carriera. In un contesto di crescita e in un mondo proteso verso la quarta rivoluzione industriale, dove le capacità tecniche saranno sostituite del tutto dalle macchine, sono le soft skills quelle su cui bisogna puntare, perché sono quelle che ci rendono resilienti.