
Sin dal 1975 – anno in cui il Partito Comunista introdusse per la prima volta nel paese un testo sulle Iniziative per l’informazione sui problemi della sessualità nella scuola statale – l’Italia ha dimostrato un atteggiamento sempre ambiguo in materia di apertura all’integrazione curricolare di materie come l’educazione all’affettività e/o alla sessualità.
L’educazione sessuale in Italia
A singhiozzi, in alcune legislature, alcuni esperimenti sono stati fatti. Ma ad oggi, con il rafforzamento dell’individualità scolastica e del potere dei dirigenti, sono le singole strutture a decidere se e come integrare tali temi nella cultura della scuola. Ciò rende il paese una realtà troppo eterogenea, non parificata e confusa. Si lascia spesso solo alle autorità scolastiche la responsabilità e il potere di decidere quali temi e come includere nei piani extra-curricolari.
La situazione in Europa
A fare i conti con l’assenza o inconsistenza di questa educazione siamo in pochissimi in Europa. Oltre all’Italia, infatti, solo altri cinque paesi non prevedono la materia a scuola. In paesi in cui la disciplina è diventata curricolare, si sono invece verificati risultati interessanti.Secondo un’indagine dell’OMS, in tali stati si è assistito ad una riduzione “dell’incidenza di gravidanze precoci, aborti e infezioni sessualmente trasmissibili, nonché abusi e discriminazioni legate all’orientamento sessuale.” La Finlandia, che vanta una tradizione solida in materia, dovette pagare, fra il 1994 e il 2006, il costo di aver categorizzato la materia da obbligatoria a facoltativa. Negli stessi anni infatti, si assistette ad un associabile boom nelle gravidanze e aborti in età adolescenziale. Secondo questi studi, dunque, esiste una correlazione fra educazione sessuale e risposta civica, sociale e culturale.
La scuola e l’università sui generi
Nonostante i ritardi, l’eterogeneità e i bias, il nostro paese vanta tuttavia una serie di esperimenti, casi, ed esempi, che lasciano intravedere un’Italia parallela e più in linea con gli standard e le evoluzioni dei nostri cugini Europei. Un esempio concreto è l’introduzione della cosiddetta ‘carriera alias,’ “un profilo burocratico, alternativo e temporaneo” spiega un articolo, “riservato agli/le student* trans.” “Questo percorso,” continua l’articolo, “sostituisce nome anagrafico – cioè quello scritto nei documenti ufficiali e dato alla nascita in base al sesso biologico – con quello che la persona transgender ha adottato.” Nello specifico, si garantisce a chi ne fa richiesta un badge con il nome scelto e un derivante indirizzo email cui tutti, colleghi, docenti e personale universitario, si rifaranno per approcciarsi allo/a studente.
La ‘carriera alias’
Nonostante questo approccio rimanga ufficioso – dal momento che il riconoscimento concreto ed esterno (all’università) avviene solo a transizione ufficializzata – l’ambiente universitario italiano si costituisce dunque come un’isola di sperimentazione del sé idealmente più inclusiva, equa e rispettosa. E gli atenei che continuano a farsi ispirare da questa conversione continuano a crescere di numero. Dal 2003 – anno in cui l’Università di Torino ha per prima avviato la pratica – si è giunti ora, nel 2021, a 32 atenei su 68. E dagli atenei, infine, si è passati alle scuole superiori. Questi ultimi, con alcune sottili differenze, hanno altresì integrato l’opzione ‘carriera alias’ per altri giovani studenti, cittadini e anime. Nonostante la ‘carriera alias’ sia solo un’espressione della rivoluzione civile ed educativa, nonché affettivo-sessuale di cui necessita il paese, la stessa è un esempio virtuoso, crescente e d’ispirazione che rivela un’Italia parallela, empatica e compensativa. La rivoluzione universitaria ha ispirato le scuole dell’obbligo superiori. A loro volta, le scuole ispirano le famiglie. E le famiglie, in questo ciclo, ci auguriamo ispirino lo stato.
Foto di Norbu GYACHUNG su Unsplash