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La pronuncia della lingua italiana

pronuncia lingua italiana

di Leonida Valeri

Ci avviciniamo al termine dell’estate. Passeggiando pigramente su una delle nostre spiagge, tra il vocio dei bagnanti di fine stagione, abbiamo modo di sintonizzarci con i tanti e particolari accenti degl’italiani. Per la serie: come pronunciare in maniera differente migliaia e migliaia di vocaboli del lessico tricolore. Si potrebbe ricavare una mappa delle presenze regionali e provinciali nelle varie località balneari – e non solo – dello Stivale, analizzando con attenzione i suoni e le articolazioni verbali. Non si tratta di semplice rilassamento vacanziero, dal lasciarsi andare alle inflessioni dei luoghi di origine o di appartenenza. Qui ci riferiamo all’ortoepia (tradotta dal greco antico: «retta parola»), cioè alla corretta pronuncia della lingua italiana, normata sui libri, come quella scritta (dove regna l’ortografia), ma misteriosa ai più; purtroppo anche a numerosi insegnanti.

Nella lingua parlata, le vocali non sono cinque, ma sette.

Già, la «e» e la «o», infatti, hanno una doppia pronuncia: chiusa o aperta, con accento acuto o grave, a seconda dei casi. Si dice, ad esempio, «tré» e non «trè», «perché» e non «perchè». Le «o» di «dóccia, orgóglio, bisógno, pósto, sóno» richiedono tutte accenti acuti. La «e» di cèntro, al contrario dell’uso comune, va letta aperta: «è». Vengono poi i dittonghi, le coppie di vocali «ie» e «uo» da intonarsi con una sola emissione di voce; i condizionali che vogliono la prima «e» con accento grave; la «s» e la «z» da tradursi dolci o aspre. Dietro questa estrema sintesi di poche righe c’è un mondo.

Ogni parola, ogni verbo, ha i suoi accenti che non si scrivono, ma si leggono.

Come per l’ortografia, l’ortoepia ha molte regole e tantissime eccezioni. Si fa prima a imparare a memoria i vocaboli più frequenti. Ma anche i nomi: Giórgio, Stéfano, che hanno la «o» e la «e» chiuse, ed Elisabètta, con la seconda «e» aperta, li ascoltiamo quasi sempre sbagliati. Il grande Césare, nel senso di Giulio, ha la prima «e» con accento acuto. Ebbene, tra le soft skills più richieste dalle aziende che ricercano personale ci sono la lingua inglese, com’è naturale, ma anche scrivere bene in italiano, saper parlare in pubblico, avere esperienze di recitazione, di teatro. Ergo, soprattutto per i giovani imparare la corretta pronuncia è importante: rappresenta qualcosa in più nel proprio curriculum, quindi nel bagaglio culturale e nella vita.

I depositari, forse ultimi, della buona dizione, sono gli attori teatrali e i doppiatori.

Recitare da un palcoscenico (la vera diretta, perché senza filtri), come prestare la voce a un documentario, sono professioni che richiedono anni di studio della dizione e continuo aggiornamento sull’evoluzione della lingua. Punto e a capo. Per quanto riguarda, invece, i riferimenti cartacei e/o online, vanno citati i dizionari, ovviamente, le grammatiche nelle sezioni riguardanti la fonetica, ma soprattutto il Dop, il “Dizionario di ortografia e di pronunzia” edito da Rai Eri, la cui prima edizione risale al 1969, cioè a quando l’uomo sbarcò sulla Luna.

Manca la consapevolezza che esista una corretta pronuncia.

Certo, declamare il corretto italiano chiacchierando e passeggiando per le strade o le spiagge può apparire ben strano, visto che la nostra lingua parlata è semisconosciuta, anche da quelle persone che intrattengono contatti quotidiani col pubblico. La causa a monte di tutto ciò potremmo individuarla nella scarsa consapevolezza – a qualsiasi livello professionale – dell’esistenza dell’ortoepia. Ciò darebbe una risposta alla domanda: come mai se compio un errore scritto, quindi di ortografia, da matita rossa, vengo ripreso, e se ne commetto uno parlato non succede nulla?

Foto di StockSnap da Pixabay

OCL

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