
Vivo all’estero per lavoro da tanto tempo. Molti anni spesi prevalentemente in Germania, ma anche negli Stati Uniti, Inghilterra, Svizzera ed un po’ di Francia. Da circa 3 anni risiedo a Mumbai in India. E tutto questo senza citare i viaggi, a ritmo quasi settimanale, nei posti più disparati di questo mondo. È la classica vita quando, come nel mio caso, si lavora per una grande azienda di consulenza globale.
In questo continuo viaggiare, mi succede di adattarmi costantemente a nuove regole di vita, a nuove convenzioni sociali, nuove culture ed individui. Lavorare con non Italians rappresenta forse il 95% dei casi. È piacevole, è stimolante, mi incuriosisce, in breve, mi arricchisce. Adattarmi è un ossessione, si potrebbe dire, e molto spesso mi regala un vantaggio.
Eppure mi è capitato in diverse situazioni di scoprire che in uno dei tanti incontri con clienti, colleghi o in generale business partners, dall’altra parte della stanza sedesse qualcuno che alla fine si è fatto riconoscere da me in maniera più o meno timida come Italiana/o. È una sensazione buffa. Ci si guarda, ci si sorride quasi da complici, si scherza sugli altri e soprattutto sulle sorti dell’Italia, ma poi sembra quasi che si abbia fretta di tornare ad essere non Italians, per re-integrarsi nella cultura locale. Più tardi scopri molto spesso che questa persona è la più influente in quella riunione. Quella che può decidere. In molti casi hai a che fare con la vera superstar della situazione. Sono tanti infatti i cosiddetti professionals italiani che occupano ruoli chiave in grandi Aziende Globali. Il punto però è che agiscono in un contesto non italiano. Mi son chiesto più volte quali sono i meccanismi che generano questo cosiddetto “uneasy feeling”, questa sensazione strana che ci porta quasi a desiderare di non essere identificati come italiani.
La prima cosa che mi è venuta in mente è che succede anche a me.
La seconda cosa è che lo si fa per quieto vivere. Molti lo fanno perché credono l’italianità interessi solo nella vita sociale, mentre nelle interazioni professionali la considerano uno svantaggio. Alla fine però ho concluso che questa percezione può essere anche di grande ostacolo alla nostra crescita personale.
Diciamolo con chiarezza: come molti in Italia, ancor più noi che siamo all’estero, ci vergognamo. Ci sentiamo quasi portatori di una colpa che i media, la politica, la nostra struttura socio-economica, ma soprattutto l’abitudine a non prenderci sul serio, a causa dei tanti problemi del paese, generano in noi.
Non è un sentimento che nasce all’estero. È una cosa che nasce in Italia.
La maggior parte di noi, seppur delusa dal nostro paese, continua ad essere profondamente italiana, ma ha deciso di confrontarsi solo in certi momenti con l’italianità, avendo il lusso di poter scegliere: se parliamo di cucina, di eleganza, di arte, di paesaggi allora siam fieri. Se parliamo di burocrazia, di malgoverno, di certe forme di ignoranza civile ecc. allora non lo siamo più e nascondiamo gli incubi in fondo al cassetto, ben felici di vivere in molti casi in una realtà che ci sembra più giusta e meno complicata. Fatto sta che questa scena si ripete e viene amplificata una volta rientrati in Italia.
Credo che questa forma di imbarazzo sia uno degli aspetti più importanti da considerare, analizzando il mondo del lavoro e l’interazione con l’estero, e la prenderemo come filo conduttore nelle prossime settimane, per discutere molte problematiche di tipo culturale legate al lavoro in Italia ed all’estero.